Associazione per la difesa del suolo e delle risorse idriche

Boschi e dissesto idrogeologico: la visione nella Strategia nazionale forestale

Pubblichiamo il saggio di Alessandra Stefani, direttore generale dell’Economia montana e le Foreste – Ministero dell’Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste – su: “Boschi e dissesto idrogeologico: la visione nella Strategia nazionale forestale”.

Il testo è quello della lectio magistralis letta il 6 giugno 2024 a Napoli, in occasione della X edizione del premio “Carlo Afan de Rivera” alle migliori tesi di laurea e dottorato in materia di bonifica idraulica e difesa del suolo.

Boschi e dissesto idrogeologico: la visione nella Strategia forestale nazionale

Alessandra Stefani, Direttore generale dell’economia montana e delle foreste – Ministero agricoltura sovranità alimentare e foreste

La Strategia forestale nazionale è un documento approvato con decreto interministeriale nel 2022, grazie all’azione del Ministero dell’agricoltura della sovranità alimentare e delle foreste, che ha ricevuto l’intesa del Ministero dell’ambiente, del Ministero della cultura e del Ministero dello sviluppo economico, con il concerto della Conferenza Stato Regioni.

Si tratta di uno strumento, il primo in Italia, adottato a beneficio del patrimonio forestale italiano, nell’interesse collettivo. La sua missione è individuata nel portare l’Italia “ad avere foreste estese e resilienti, ricche di biodiversità, capaci di contribuire alle azioni di mitigazione e adattamento alla crisi climatica, offrendo benefici ecologici, sociali ed economici per le comunità rurali e montane, per i cittadini di oggi e delle prossime generazioni”.

La Strategia forestale (di seguito SFN) incentiva “la tutela e l’uso consapevole e responsabile delle risorse naturali, con il coinvolgimento di tutti, in azioni orientate a criteri di sostenibilità, di collaborazione e di unità di azione”. Individua tre obiettivi generali riconducibili ai tre principi guida della Strategia forestale europea del 2013, mantenuti nella successiva Strategia forestale 2030, declinandoli e contestualizzandoli alle esigenze ambientali e socioeconomiche del territorio nazionale.

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Nell’analisi di contesto con cui il documento si apre, la SFN riconosce la natura e la funzione svolte dagli alberi e dalle foreste nella regolazione del flusso delle acque nel contrasto e controllo dell’erosione dei suoli e del dissesto idrogeologico, favorendo la stabilizzazione  degli strati superficiali e profondi del suolo sia sui versanti di elevata pendenza  sia sulle sponde ripariali, proteggendo i territori di montagna da frane, valanghe e altri pericoli naturali e quelle di pianura dalle esondazioni.  Dalla sintesi delle principali caratteristiche  del settore forestale italiano  in esito all’analisi SWOT condotta dal folto gruppo di personalità che hanno contribuito a redigere la bozza  della Strategia emerge con evidenza, tra le debolezze, la scarsa diffusione della pianificazione forestale  e territoriale, la limitata conoscenza  e consapevolezza del ruolo e delle funzioni del bosco da parte dell’opinione pubblica, l’elevata frammentazione delle proprietà forestali, la complessità del sistema normativo e vincolistico e l’incertezza nei processi amministrativi, la scarsa conoscenza dei suoli forestali, in particolare negli ambienti montani, da cui in molti contesti dipende l’elevata vulnerabilità idrologica, con conseguenze  che si assommano alla scarsa prevenzione, gestione e manutenzione dell’assetto idrogeologico del Paese. Da ultima, ma certo non per minore importanza, l’indicazione della scarsità di informazioni di settore, limitate, disomogenee e poco accessibili, sia statistiche sia cartografiche, anche di tipo pedologico ad ogni scala territoriale, con conseguente scarsa integrazione dei dati e delle conoscenze di settore per sviluppare un’analisi più precisa delle diverse scale di riferimento.

Tra i documenti di approfondimento preparati dal gruppo di lavoro (tutti i documenti sono pubblici e facilmente reperibili sul sito del MASAF) figura un documento sulle foreste e le filiere forestali. In esso si legge con chiarezza che le caratteristiche geografiche, geomorfologiche, pedologiche e biogeografiche e climatiche del territorio italiano determinano un’elevata eterogeneità ambientale “patrimonio immenso del nostro Paese e per il pianeta”.

La ricchezza ambientale, in termini di diversità biologica e di ecosistemi, porta l’Italia ad essere un Paese unico ed allo stesso tempo fragile. L’attuale paesaggio forestale italiano è il risultato di profonde trasformazioni territoriali e socioeconomiche avvenute nei secoli, al fine di ottenere principalmente superfici agricole, pascolive e urbanizzate.

Il patrimonio arboreo italiano è stimato in circa 12 miliardi di alberi (200 piante per ogni cittadino, circa 1550 mq di bosco a testa) con una eccezionale ricchezza di comunità forestali. La carta forestale del 1936 (l’unica pubblicata fino al 2024), redatta dal Real Corpo delle Foreste racconta allora di 5 milioni di ettari di bosco. Secondo i dati dell’ultimo inventario pubblicato dai Forestali carabinieri nel 2022 con dati aggiornati al 2015 si arriva a più di 11 milioni di ha, ma recenti indagini IUTI (Inventario dell’uso delle terre d’Italia- Geoportale Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica) fanno rilevare il superamento dei 12 milioni di ha, pari al 40% della superficie nazionale. Si tratta del risultato delle eccezionali opere di rimboschimento effettuate a spese dello Stato anche su terreni privati o espropriati tra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra, ma anche del progressivo abbandono dell’agricoltura e del pascolo in montagna e collina. La superficie forestale complessiva negli ultimi 80 anni si è triplicata, dal 2005 al 2015 si è espansa di circa 5,3 milioni di ettari l’anno avvicinandosi alle città, negli spazi interstiziali e degradati periurbani, in verità diminuendo lungo le coste, nel fondovalle, nelle pianure. Il primo rapporto sullo stato delle foreste italiane, pubblicato dal MASAF nel 2019 grazie alla collaborazione con Rete rurale e Compagnia delle foreste, indica in 7000 ha all’anno la perdita di suolo forestale dal 1990 ad oggi.

Il processo di espansione e riconquista degli spazi da parte del bosco non è quindi il frutto di una politica lungimirante di tutela e rinaturalizzazione del territorio bensì il risultato del progressivo spopolamento ed abbandono colturale e gestionale particolare nelle aree rurali montane e interne. Il bosco invade ed ottunde anche le luci di quel reticolo idraulico minore alle alte quote rimasto senza gestione, senza manutenzione, con effetti catastrofici sul dissesto dei versanti.

Dei 12 milioni di boschi italiani, il 60% è governato a ceduo, una forma particolare di taglio che interessa i boschi di latifoglie capaci di rigettare fusti dalle radici anche per centinaia di anni. Si tratta del tipo di governo di antica gestione che, se regolamentato opportunamente come avviene grazie alle norme regionali e gestito con cura, produce regolarmente legna da ardere e alcune pezzature di legname per piccoli lavori di paleria ed artigianali, al servizio prevalentemente dell’agricoltura, nonché prodotti a torto a volte definiti secondari (funghi, tartufi, miele, piante officinali) garantendo la perpetuità della superficie forestale. Divenuto spesso obsoleto nei suoi scopi colturali, tende ad invecchiare, raramente evolvendosi in forme diverse di bosco a maggiore funzionalità, e in alcuni casi collassando su sé stesso. Sono necessari importanti interventi colturali ben orchestrati e spesso non con bilancio economico attivo per un passaggio ad altofusto, mentre cedui utilizzati sapientemente, con intervalli temporali e spaziali ben orchestrati si dimostrano efficaci dal punto di vista ambientale, paesaggistico produttivo e preventivo dei dissesti.

Il 40% dei boschi d’altofusto è rappresentato per lo più da conifere, miste o in purezza, ed è localizzato prevalentemente nell’arco alpino. Dal 2018 anche e soprattutto per effetto della tempesta VAIA che ha abbattuto in una sola notte più di 40.000 ettari di foreste alpine, l’abete rosso che rappresenta la specie più diffusa, spesso in purezza, sta soffrendo di una devastante infestazione di un piccolissimo coleottero che porta improvvisamente a morte la pianta intera. L’abete rosso soffre anche delle prolungate siccità estive, ed anche invernali, che si sono manifestate nelle ultime stagioni, ed è dunque maggiormente esposto ai danni ed agli attacchi di funghi e insetti. In alcune zone alpine e prealpine, dove era stato introdotto artificialmente per le sue caratteristiche di facile attecchimento e di pregio delle sue produzioni, l’abete rosso rischia di sparire completamente, privando pendici anche molto acclivi della sua protezione.

Dal punto di vista tipo di proprietà, i 2/3 dei boschi italiani in media sono di proprietà privata, e quella individuale ne rappresenta l’80%. Il 20 % restante è rappresentato da proprietà collettive, cui una legge recente (Legge 20 novembre 2017 n.168) conferisce comunque carattere di utilità pubblica. La proprietà pubblica al 65% è comunale o provinciale; un 1% circa di proprietà dello Stato, il restante demanio è affidato alle Regioni. In termini volumetrici, i boschi italiani raggiungono un volume stimato di 1 miliardo e 269 milioni di metri cubi di legno fuori terra. Il prodotto legnoso prevalente resta la legna da ardere, che tuttavia non basta a soddisfare le necessità nazionali al punto che l’Italia è stimata essere il primo importatore mondiale di legna da ardere. Nemmeno sul fronte degli utilizzi “nobili” e duraturi del legno l’Italia è autosufficiente: il grandissimo e giustamente celebrato settore del legno arredo e design si approvvigiona per l’80% di legno proveniente dall’estero, con conseguente necessità di accertare che il legno importato non sia stato ricavato provocando la ben nota rarefazione di superfici forestali a livello mondiale, essendo la tendenza europea ed italiana in totale controtendenza.

Tutte le foreste italiane sono sottoposte ad una vincolistica molto pervasiva. Il 100% delle foreste italiane è protetta dal punto di vista paesaggistico ambientale, per cui non può essere trasformata in altra qualità di uso del suolo in modo permanente se non previo ottenimento di una autorizzazione paesaggistica, redatta in forma estesa, e di una verifica del potenziale danno ambientale. In ogni caso, ad autorizzazione eventualmente ottenuta segue un obbligo di creazione di una eguale porzione di nuovo bosco o un miglioramento di una superficie forestale esistente. Il 28% dei boschi ricade in area protetta, nazionale o regionale. L’80% dei boschi è sottoposto ad un regime d’uso regolamentato strettamente da norme regionali per la prevenzione dei dissesti idrogeologici, nel quadro di una norma cornice che rimonta al 1923, denominata Legge Serpieri dal nome del suo principale estensore, all’epoca Sottosegretario al Ministero dell’Agricoltura. La ragione di questo peculiare ed antico regime vincolistico, il cui estendersi sul territorio nazionale fu affidato principalmente all’azione di promozione e controllo del Real Corpo delle foreste prima, e del Corpo forestale dello Stato poi, fu la consapevolezza dell’intenso legame esistente tra foreste, ciclo dell’acqua e prevenzione dei dissesti.  Infatti, il bosco è riconosciuto essere uno dei fattori che maggiormente influisce su entità, ritmo ed effetti degli scambi idrici tra idrosfera, litosfera, ed atmosfera. È stata definita, dal prof. De Philippis, in numerosi suoi lavori, “la componente biologica che regola il ciclo dell’acqua”. In ingresso, vi sono infatti precipitazioni ed infiltrazione: In uscita evaporazione, intercettazione della pioggia, infiltrazione nel suolo. Il bilancio dei fattori indica l’efficienza idrologica, che si manifesta come riduzione del deflusso superficiale, aumento dei tempi di corrivazione e quindi la capacità di laminazione dei bacini. In più elevati livelli di quantità di acqua e diminuzione di erosione dei suoli con ripercussioni sul trasporto solido nei corsi d’acqua, stabilità dei versanti dall’erosione superficiale anche grazie alla penetrazione delle radici delle piante.

Secondo uno studio pubblicato da Rossi e De Nardo (Rossi F., De Nardo A., 2022: Ruolo della copertura forestale dei versanti nella mitigazione dei rischi idrogeologico e idraulico. Quaderno CESBIM n. 5) lo studio sistematico dei fenomeni di dissesto idrogeologico li suddivide generalmente in due distinte categorie, riassumibili in fenomeni gravitativi e in quelli alluvionali. Si può trattare di fenomeni non correlati, quasi sempre trattati separatamente ma non di rado interferenti: frane e crolli vanno a modificare le sezioni dei torrenti che scorrono alla loro base; le acque superficiali defluenti in un impluvio possono a loro volta innescare fenomeni franosi, erodendo il piede di una pendice ed accentuandone l’instabilità. È dunque evidente che la funzione protettiva del bosco assume maggiore rilievo nei versanti, crescente in ragione della pendenza, poiché in ragione di essa si accrescono la velocità del deflusso delle acque superficiali e l’intensità dell’erosione.

Dal punto di vista normativo, lo specifico interesse per le coperture forestali nell’intento di prevenire i dissesti idrogeologici con atti concreti, si fa risalire alla già citata Legge Serpieri, il RD 3267 del 1923, norma tuttora vigente che ha compiuto da poco i 100 anni, e che ha visto efficacia anche grazie al suo regolamento attuativo, pubblicato nel 1926. Spesso citata come legge forestale, in realtà non lo era, nelle sue premesse, poiché non poneva al centro della disciplina la tutela e la valorizzazione economica del bosco, ma la stabilità dei suoli ed il regime delle acque superficiali e profonde. Per descriverla come efficacemente sintetizzano Hoffmann e Preti in una loro illuminante relazione (Hoffmann A., Preti F., 2022: Politiche di promozione del potere regimante del bosco. Quaderno CESBIM n. 5) lo scopo specifico del Legislatore di allora “era l’assetto idrogeologico e l’imposizione dei vincoli per garantire tale assetto”. La selvicoltura veniva disciplinata solo, o prevalentemente, in funzione del vincolo per scopi idrogeologici che, si noti, veniva apposto con un procedimento amministrativo minuzioso, pubblico e opponibile dai privati, ed era gestito da appositi Comitati provinciali misti, dunque con un modernissimo atteggiamento partecipativo di attenzione alle singole realtà locali.

Il bacino idrografico era l’unità di riferimento, come del resto era già ben chiaro da secoli come dimostrano le attività di Afan De Rivera, alla cui memoria la giornata di oggi è dedicata.

Altrettanto moderna è la visione della stessa norma che ha consentito di contrastare forme di utilizzazione dei terreni boscati e da rimboschire che potessero espropriarli, “con danno pubblico”, a perdita di copertura e di stabilità o a disordine nella circolazione delle acque. Le regole selvicolturali da rispettare per ottenere questo obiettivo, scritte, come detto, da Comitati a circoscrizione provinciale, divise per quota e per tipo di bosco, sono divenute nel tempo regole da rispettare per il buon governo complessivo dei boschi.  Come ho avuto modo di sottolineare in uno dei molteplici incontri organizzati in occasione del centenario della Legge, nel tempo queste regole, raccolte prima nelle Prescrizioni di massima e norme di Polizia forestale prima, nei regolamenti regionali poi, dopo  la regionalizzazione delle competenze in materia forestale avvenuta nel 1977,  sono divenute il discrimine  tra interventi boschivi in grado di tutelare il paesaggio, se rispettate, dopo l’approvazione delle norme in materia di vincolo paesaggistico e a breve diventeranno il benchmark di riferimento per le attività di gestione considerate “ più vicine alla natura “ in grado di maturare, se messe in atto, il riconoscimento e la vendita di crediti di carbonio.

Ma ad eccezione del Regio decreto 3267 del 1923, l’Italia ha scontato fino al 1989 un forte ritardo nella promulgazione di norme che imponessero di considerare i fenomeni di origine naturale, quali frane e alluvioni, nella pianificazione territoriale ed urbanistica. La Legge 183 del 1989, ispirata a risultati  della Commissione De Marchi, è infatti la prima norma  organica per il riassetto  organizzativo e funzionale della difesa del suolo, che individua ancora una volta il bacino idrografico come base territoriale di riferimento per la protezione idrogeologica e le Autorità di bacino  quali istituzioni responsabili  della predisposizione di piani di bacino, strumenti fondamentali per la pianificazione territoriale e la programmazione  di opere di sistemazione, sovraordinato rispetto ad altre pianificazioni di livello regionale, provinciale e locale. Tuttavia, fino al catastrofico evento di Sarno del 5 maggio 1998, la legge 183 non ha avuto piena attuazione, con pochi piani stralcio adottati. Grazie al DL 180 dell’11 giugno 1998, convertito con la Legge 267 del 1998, vennero impresse accelerazioni per l’individuazione, la perimetrazione e la classificazione delle aree a pericolosità e rischio idrogeologico per frane e alluvioni, con l’adozione dei piani di bacino, con misure di salvaguardia, vincoli e regolamentazione di uso del territorio. Il Testo unico dell’ambiente (D lgs 152 del 2006 e smi) ha abrogato la Legge 183 riscrivendola, inserendola in uno dei suoi numerosi Titoli, istituendo i Distretti idrografici, e tra l’altro, prevedendo il riordino del vincolo idrogeologico, per ora senza esito.

Nel rapporto “Dissesto idrogeologico in Italia – pericolosità e indicatori di Rischio” (ISPRA 2021) si legge che complessivamente il 18,4% (55.609 kmq) del territorio nazionale è classificato a pericolosità frane elevata, molto elevata e/o a pericolosità idraulica media (tempo di ritorno tra 100 e 200 anni). Rispetto all’edizione 2018 del Rapporto, emerge un incremento percentuale del 3,8% della superficie classificata a pericolosità da frana elevata e molto elevata e del 18,9% della superficie a pericolosità idraulica media. L’incremento è legato principalmente a un miglioramento del quadro conoscitivo effettuato dalle Autorità di Bacino Distrettuali con studi di maggior dettaglio e mappatura di nuovi fenomeni franosi o di eventi alluvionali recenti.

Complessivamente il 93,9% dei comuni italiani (7.423) è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera. 1,3 milioni di abitanti sono a rischio frane (13% giovani con età inferiore a 15 anni, 64% adulti tra 15 e 64 anni e 23% anziani con età superiore a 64 anni) e 6,8 milioni di abitanti a rischio alluvioni. Le regioni con i valori più elevati di popolazione a rischio frane e alluvioni sono Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia, e Liguria. Le famiglie a rischio sono quasi 548.000 per frane e oltre 2,9 milioni per alluvioni. Su un totale di oltre 14,5 milioni di edifici, quelli ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono oltre 565.000 (3,9%), quelli ubicati in aree inondabili nello scenario medio sono oltre 1,5 milioni (10,7%). Nel rapporto 2021 viene presentato un nuovo indicatore sugli aggregati strutturali a rischio frane. Le industrie e i servizi ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono oltre 84.000 con 220.000 addetti esposti a rischio; quelli esposti al pericolo di inondazione nello scenario medio sono oltre 640.000 (13,4% del totale). 1,3 milioni di abitanti sono a rischio frane e 6,8 milioni di abitanti a rischio alluvioni.

Le frane sono fenomeni estremamente diffusi a causa delle caratteristiche geologiche e morfologiche del territorio italiano, che è per il 75% montano-collinare. L’affioramento diffuso di litotipi prevalentemente argillosi con scadenti caratteristiche di resistenza meccanica, specialmente in presenza di acqua, contribuisce significativamente alle condizioni di instabilità dei pendii. A ciò si aggiunge la debolezza strutturale delle formazioni rocciose a comportamento rigido diffusamente interessate da faglie e fratture. Delle circa 900.000 frane censite nelle banche dati dei paesi europei (Herrera et alii, 2018; JRC, 2012), quasi i 2/3 sono contenute nell’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia (Progetto IFFI) realizzato dall’ISPRA e dalle Regioni e Province Autonome.

I fattori più importanti per l’innesco dei fenomeni franosi sono le precipitazioni brevi e intense. Relativamente a questi ultimi si ricordano le frane, prevalentemente di crollo, innescatesi con i terremoti della sequenza sismica che ha interessato l’Italia centrale a partire dall’agosto 2016. Negli ultimi decenni i fattori antropici, quali tagli stradali, scavi, sovraccarichi dovuti ad edifici o rilevati, hanno assunto un ruolo sempre più determinante tra le cause predisponenti delle frane. L’abbandono delle aree rurali montane e collinari ha determinato un mancato presidio e manutenzione del territorio e dei manufatti antropici. In particolare, i versanti con terrazzamenti agricoli, estremamente diffusi in Liguria, Valtellina e Val Chiavenna (SO), in Penisola Sorrentina, Cilento, Gargano, Calabria e Sicilia orientale, in assenza di una costante manutenzione dei muretti a secco e dei sistemi di drenaggio, sono particolarmente suscettibili all’innesco di fenomeni gravitativi in concomitanza di piogge intense (es. evento del 2009 a Giampilieri (Messina) e del 2011 nelle Cinque Terre). I cambiamenti climatici in atto stanno determinando, alle nostre latitudini, un aumento della frequenza degli eventi pluviometrici intensi, e come conseguenza un aumento della frequenza delle frane superficiali e delle colate detritiche (Gariano S. L., Guzzetti F., 2016: Landslide sin a changing climate. Earth-science Reviews 162, 227-252). In alta quota l’aumento di temperatura ha effetti sulla degradazione del permafrost, con un incremento dei fenomeni di instabilità. Archiviare le informazioni sui fenomeni franosi è un’attività strategica, tenuto conto che gran parte delle frane si riattivano nel tempo, anche dopo lunghi periodi di quiescenza di durata pluriennale o plurisecolare (es. frana di Corniglio (PR)) e che nuove frane si sviluppano spesso all’interno di frane esistenti. L’Inventario IFFI è un importante strumento conoscitivo di base che viene utilizzato per la valutazione della pericolosità da frana dei Piani di Assetto Idrogeologico (PAI), la progettazione preliminare di interventi di difesa del suolo e di reti infrastrutturali e la redazione dei Piani di Emergenza di Protezione Civile.

Oltre ai dissesti sopra descritti, Iovino (Iovino F., 2017: Gestione sostenibile dei boschi e stima delle biomasse. Sisef.org) aggiunge il tema dell’erosione dei suoli, fenomeno meno evidente ma più insidioso, con effetti anche nel lungo termine. L’erosione idrica del suolo, che in ambienti aridi e semiaridi viene inglobata nei processi di desertificazione, è invece tra i fenomeni come alluvioni e frane poiché porta a perdite di suolo, di fertilità, di biodiversità anche in luoghi distanti da quelli dove il fenomeno erosivo è avvenuto, che si traducono in aumento del trasporto solido in acqua, danni alle infrastrutture, riempimenti di bacini di irrigazione ed idroelettrici, inquinamento delle acque superficiali a causa del trasporto di concimi e antiparassitari. A causa della gestione non corretta del territorio l’erosione rimane il principale aspetto della degradazione del suolo e supera mediamente di 30 volte il tasso di sostenibilità (erosione tollerabile) con danni economici causati dalla perdita del suolo. Il costo è ancora poco studiato.

Occorre dunque dedurre che, a fronte della più estesa copertura forestale mai presente sul territorio nazionale dal medioevo ad oggi, e della complessa vincolistica che impone ai proprietari forti limitazioni, in funzione sociale, all’utilizzo del proprio bene forestale, il suo effetto sia quanto mai modesto. In realtà, il complesso di fattori che presiedono ai dissesti all’attualità rende ancora più preziosa la copertura forestale, ma impegna i forestali ad attivare con maggiore intensità gestioni attive, sostenibili e responsabili.

Prendendo a titolo di esempio i devastanti accadimenti nel territorio dell’Emilia-Romagna dello scorso maggio 2023, possiamo riflettere su ciò che sta avvenendo ai nostri territori montani e di pianura. Il territorio dell’Emilia-Romagna è stato interessato da due eventi in sequenza in meno di venti giorni con precipitazione cumulata mensile che ha superato i 450 millimetri in varie località.

Con riferimento al quadro della pericolosità e del rischio di alluvioni, aggiornato dalle Autorità di Bacino Distrettuali a dicembre 2020, analizzato a livello nazionale dall’ISPRA, l’Emilia-Romagna è tra le regioni in cui le percentuali di territorio potenzialmente allagabile, così come quelle di popolazione esposta a rischio di alluvione per i tre scenari di pericolosità/probabilità, risultano superiori rispetto ai valori calcolati alla scala nazionale. In particolare, l’11,6% del territorio regionale, in cui risiede poco meno del 10% della popolazione, ricade in aree potenzialmente allagabili secondo uno scenario di pericolosità elevata (ovvero inondabile per eventi con tempi di ritorno compresi tra i 20 e i 50 anni). In caso di scenario di pericolosità media (TR compreso tra 100 e 200 anni) le aree potenzialmente allagabili raggiungono il 45,6% dell’intero territorio regionale e la popolazione esposta supera ampiamente il 60%.

Le province con maggiori percentuali di territorio inondabile sono Ravenna e Ferrara con percentuali che arrivano rispettivamente all’80% e quasi al 100% in caso di scenario di pericolosità media da alluvioni. La notevole estensione delle aree allagabili a partire dallo scenario medio per la Regione Emilia-Romagna è legata alla presenza di una complessa ed estesa rete di collettori di bonifica e corsi d’acqua minori che si sviluppano su ampie aree morfologicamente depresse, di tratti arginati spesso lungo alvei stretti e pensili, di regimazioni e rettifiche in specie nei tratti di pianura. Per tempi di ritorno superiori a quelli previsti per lo scenario di pericolosità elevata, infatti, il reticolo di bonifica per lo più insufficiente in modo generalizzato, provoca allagamenti diffusi su porzioni molto ampie del territorio.

L’analisi meteorologica dell’evento in Emilia-Romagna nel maggio 2023, condotta da ISPRA, permette di evidenziare come il carattere eccezionale dell’evento si debba alla combinazione di una serie di fattori legati alla struttura e alla traiettoria del ciclone in transito da sabato 12 maggio sul Mediterraneo e da lunedì 14 maggio sulla Penisola.

Il primo fattore è la persistenza: a causa della situazione sinottica il minimo al suolo, proveniente dal Nordafrica, ha percorso lo Stivale dalla Sicilia all’Umbria in 36 ore, dalle 00 di lunedì alle 12 di martedì, per poi rimanere stazionario indebolendosi gradualmente. In secondo luogo, la notevole intensità del ciclone, con la formazione, come spesso succede, di un’estesa fascia di aria umida in corrispondenza del fronte freddo (cosiddetto “nastro trasportatore”). Infine, la convergenza delle masse d’aria umida su un’ampia fascia del versante Nord dell’Appennino Tosco-Emiliano, come combinazione dei venti di scirocco sull’Adriatico centro-meridionale e dei venti di bora sul nord Adriatico, spingendo per l’intera giornata del 16 le masse d’aria umida in una sorta di “imbuto” puntato sull’Appennino. A causa del sollevamento orografico tale conformazione ha prodotto intensa precipitazione, anche in assenza di instabilità atmosferica, finendo per scaricare il contenuto dell’intera massa di aria umida sempre sulla stessa zona, peraltro piuttosto estesa. Il risultato di tale condizione ha prodotto notevoli quantitativi di precipitazione, con cumulate sulle 24 ore superiori ai 100 mm su gran parte dei bacini dell’Idice-Savena, del Sillaro, del Santerno, del Senio, Lamone-Marzeno e Montone, con picchi di precipitazione che, soprattutto su questi ultimi bacini, hanno superato i 150 mm. Si sono verificati alcune centinaia di fenomeni franosi sul territorio regionale, in particolare nelle Province di Bologna, Ravenna e Forlì-Cesena, e secondariamente anche nelle province di Modena e di Reggio Emilia. In particolare, a partire dalla notte del 1° maggio si sono verificati frequenti smottamenti di terreno di non rilevante estensione, accompagnati da ruscellamento disordinato e trasporto di detrito, che hanno interessato la viabilità sia principale che secondaria. Con il persistere delle precipitazioni, nella seconda parte della giornata e nella notte tra il 2 e il 3 maggio, si sono innescate alcune frane di grandi dimensioni. Complessivamente ci sono segnalazioni di oltre 250 frane di cui 120 particolarmente importanti in 48 comuni.

Di fronte ad un evento meteoclimatico di questo tipo, l’assenza di copertura forestale nei territori montani avrebbe comportato fenomeni di dimensione ancora più devastante, ma è evidente che oltre ad un certo effetto regimante ed antierosivo delle aree boschive, la copertura forestale non può più esplicare positivi effetti, ed è la funzionalità del reticolo idraulico a monte, e poi a valle, che deve essere indagata e valutata nella sua  officiosità anche alla luce dei mutamenti del regime pluviometrico registrato in questi ultimi anni. Tra le cause dissesto idrogeologico vi sono pericolosità naturale e azioni antropiche. Tra le cause naturali si annoverano le caratteristiche geomorfologiche del territorio italiano e l’instabilità climatica. Tra le seconde l’eccessiva antropizzazione, l’impermeabilizzazione dei suoli, l’urbanizzazione di aree di pertinenza fluviale soggette a inondazioni, compromissione del reticolo idraulico minore, sottrazione del letto dei fiumi di ghiaia e altro materiale da costruzione. Nelle aree montane, lo spopolamento progressivo aumentato dagli anni 60, e la conseguente mancanza di manutenzione e cura del territorio, nonché la riduzione delle attività selvicolturali. L’insieme dei fenomeni di dissesto italiano ha confermato il ruolo fondamentale che assume la gestione forestale. È lo strumento fondamentale per garantire la salvaguardia del territorio, con particolare riferimento a quello montano dei bacini dove le interazioni tra bosco e ciclo dell’acqua assumono particolare rilevanza, perché l’idrologia dei versanti è predominante su quella del collettore.

Per poter contribuire attivamente alla riduzione del rischio idrogeologico e alla salvaguardia dei suoli, le aree boschive ad alta suscettività da frana ed erosione devono essere oggetto di azioni e interventi mirati, in sinergia complementare con quelli attivati sulle aree agro-pastorali. L’azione più efficace in alcune aree ad alto livello di degrado è senza dubbio l’imboschimento dei terreni agricoli, attivi o in abbandono, e dei pascoli degradati riportando in equilibrio i versanti dove l’agricoltura o la pastorizia, in recente passato, avevano acquisito spazio in modo forzato. Gli impianti di boschi permanenti o di arboricoltura da legno a ciclo medio-lungo consentono, infatti, un forte aumento della stabilità dei pendii, una graduale riduzione dell’erosione con aumento della protezione degli strati di suolo superficiali, attraverso il drenaggio delle acque sub-superficiali, favorendo l’infiltrazione e regolando di conseguenza anche i livelli di falda. Tutti i corsi d’acqua connessi beneficiano in questo modo di una consistente riduzione dell’erosione e del trasporto solido a valle e di una complessiva stabilizzazione dei loro alvei. L’aumento del tempo di corrivazione a livello di bacino, conseguente all’imboschimento, fa sì che si riduca il colmo di piena diminuendo il rischio di alluvioni. Ulteriori vantaggi di una superficie rimboschita possono essere: aumento di capacità di cattura di CO2 nella biomassa epigea e ipogea delle piante, nella lettiera e nel suolo, contribuendo alle politiche nazionali e internazionali di contenimento dell’effetto serra e di e adattamento ai cambiamenti climatici; conservazione della biodiversità; produzione di biomasse forestali per materiali da opera e fini energetici; valorizzazione del paesaggio e della fruizione turistico-ricreativa. Per alcune aree gli interventi necessari richiedono delle conversioni nella conduzione forestale, come ad esempio l’avviamento dei cedui alla struttura di alto fusto, o viceversa, oppure il mantenimento di tale forma di governo in zone non più coltivate a ceduo sui versanti più instabili. Gli interventi di sistemazione idraulico-forestale, rinaturalizzazione e inerbimento oltre a essere spesso associati ai rimboschimenti per velocizzare i ripristini e stabilizzare il reticolo idrografico minore rappresentano un importante strumento di manutenzione del territorio e per l’incremento e la conservazione della biodiversità. Relativamente al reticolo idrografico minore occorre prestare attenzione sia alla stabilizzazione dell’alveo e delle sponde anche mediante l’utilizzo di tecniche di ingegneria naturalistica, sia al mantenimento dell’efficienza idraulica attraverso il taglio selettivo della vegetazione in alveo, salvaguardando le funzioni ambientali svolte dalla vegetazione ripariale. In Italia il reticolo idrografico minore naturale che ricade nel territorio montano-collinare e in zone boscate con elevata propensione all’erosione (maggiore di 11,2 ton/ha/anno) è pari a 40.515,71 km.

Poiché importante motivo di innesco di fenomeni di degrado, fenomeni franosi e alluvionali sono senza dubbio le superfici boschive percorse dal fuoco o degradate da disturbi naturali (eventi estremi, fitopatie), le azioni a riguardo sono essenzialmente il ripristino della struttura boschiva danneggiata, il restauro ecologico e il miglioramento strutturale a fini preventivi, oltre alla stabilizzazione superficiale dei versanti anche con tecniche di ingegneria naturalistica. Ma la prevenzione degli incendi boschivi appare come una delle azioni più importanti da attuare. Occorre quindi individuare le opere più adeguate, quali il decespugliamento/pulizia di selezione del sottobosco, tagli colturali e di sfollo, garantire l’accesso ai mezzi antincendio con strade e tagli forestali e soprattutto creare e mantenere attive opportune strisce di tagliafuoco, “cesse” e viali parafuoco. Nel caso di strade forestali è opportuno ricordare che per tali opere devono essere stabilizzate in modo adeguato le scarpate di monte e di valle e devono essere realizzati e mantenuti efficaci sistemi di drenaggio lungo la strada per prevenire la concentrazione del deflusso superficiale, i fenomeni erosivi e di instabilità sul versante a valle della strada.

La previsione di quel che si dovrebbe o potrebbe mettere in atto nelle aree boschive italiane è contenuta in numerose linee guida, atti di indirizzo e norme regionali, poiché anche la gestione del vincolo idrogeologico è materia delegata, fin dal 1977, alle Regioni. Gli interventi sono stati però frammentari, ed episodici, attraverso principalmente i Fondi dello sviluppo rurale. Dopo numerose iniziative tendenti a risvegliare il sistema forestale italiano, a partire dal 2012 il Tavolo di filiera foresta legno ha impegnato l’allora Ministero delle politiche agricole a cercare di portare in Parlamento una nuova norma di coordinamento ed impulso e la creazione di un ufficio forestale in grado di assicurare un coordinamento nazionale delle politiche regionali. Il tavolo stesso ha proposto una bozza di norma che superasse gli effetti, ritenuti non sufficienti, dei primi tentativi di riunificazione di leggi e politiche locali, operato attraverso il D lgs 227 del 2001 ed il Programma quadro di sviluppo forestale, approvato nel 2008 con validità decennale. In realtà il Ministero riuscì ad ottenere nel 2015, grazie al collegato agricolo alla legge di stabilità (Legge28 luglio 2016 n.154, art. 5) una delega a integrare il D. lgs. 227 o a riscriverlo, abrogandolo.

Il risultato fu ottenuto, almeno per le sue premesse, grazie da un lato alla creazione della Direzione generale dell’economia montana e delle foreste, in esito al processo di assorbimento del CFS nell’Arma dei carabinieri grazie al D. lgs. 177 del 2016, ed all’approvazione del D. lgs. 34 del 2018 (Testo unico delle foreste e delle filiere forestali). La norma definisce al suo articolo 1, comma 1, il patrimonio forestale nazionale  come bene di rilevante interesse  pubblico da tutelare e valorizzare  per la stabilità ed il benessere  delle generazioni presenti e future e presenta tra le sue finalità (art 2) la promozione e tutela dell’economia forestale  e montana nonché delle relative  filiere produttive intese in senso ampio come un percorso che porti alla protezione e razionale utilizzo delle superfici boschive, riprendendo ed aggiornando quel binomio  che Arrigo Serpieri aveva posto alla base del suo intervento normativo e pianificatorio, ovvero al binomio foreste e forestali, nella logica che solo un territorio popolato ed adeguatamente gestito da chi viva in montagna e collina e dai lavori forestali agrosilvopastorali possa trarre da vivere dignitosamente è un territorio che previene e lotta attivamente contro i dissesti. È quindi evidente che tra le finalità del TUFF appare anche la promozione di azioni di prevenzione da rischi naturali e antropici e di difesa idrogeologica. Nelle numerose definizioni contenute nell’articolo 3, figura la definizione di sistemazioni idraulico forestali, ma anche quella di bosco di protezione diretta, inteso come una superficie boscata che per sua speciale ubicazione svolge la funzione di protezione diretta di persone beni e infrastrutture da pericoli naturali quali valanghe, caduta massi, scivolamento superficiale, lave torrentizie e altro impedendo l’evento o mitigandone gli effetti (art 3, comma 2, lettera r). Il successivo articolo 8, di conseguenza, prevede al suo comma 7 che i boschi aventi funzione di protezione diretta di abitati, beni e infrastrutture strategiche, individuati e riconosciuti dalle regioni, non possono essere trasformati e non ne può essere mutata la destinazione d’uso, fatti salvi casi legati a motivi imperativi di rilevante interesse pubblico e per le disposizioni di specifiche norme europee.

Tra le numerose importanti innovazioni del TUFF figura la piramide pianificatoria individuata dall’art 6. Al suo vertice è posta la Strategia forestale nazionale, che deve definire gli indirizzi nazionali per la tutela la valorizzazione e la gestione attiva del patrimonio forestale nazionale, con validità ventennale. Oltre ai programmi forestali regionali ed ai piani di gestione (o di assestamento), strumenti collaudati, ma non diffusi sul territorio nazionale (solo il 15% delle superfici risulta dotata di pianificazione dai dati diffusi dall’Inventario forestale del 2015), il TUFF prevede uno strumento innovativo: il piano forestale di indirizzo territoriale (PFIT). Si tratta di uno strumento predisposto per comprensori territoriali omogenei per caratteristiche ambientali, paesaggistiche, economico-produttive e amministrative, finalizzati all’individuazione, al mantenimento ed alla valorizzazione delle risorse silvopastorali e al coordinamento con altre pianificazioni, in primis quella paesaggistica (art 6, comma 3). Il tema della pianificazione  di area vasta  e dell’integrazione  con altri piani, in primis con la pianificazione di bacino e le strumentazioni di carattere paesaggistico ed urbanistico territoriale nonché con la pianificazione antincendio è fondamentale  per ottenere finalmente  quella visione integrata  che sappiamo essere indispensabile per assicurare, tra altri indubbi benefici, il massimo obiettivo per la prevenzione e la mitigazione dei danni da dissesto, anche e soprattutto in epoca di crisi climatica.

La SFN, dopo un lungo percorso partecipativo ha suddiviso le sue ampie previsioni, di durata ventennale, in azioni operative, per contribuire ad ottenere tre grandi obiettivi generali, oltre ad indicare alcune azioni specifiche ed alcune azioni strumentali. L’azione operativa A3 è dedicata alle funzioni di difesa del territorio e di tutela delle acque, partendo dal presupposto che tutti i popolamenti forestali svolgono una funzione di protezione generale diretta o indiretta. Pertanto, si dà mandato ai PFIT di individuare i boschi di protezione diretta, indicando e gestendo le aree riconosciute come potenzialmente instabili. Si propone attraverso la gestione forestale sostenibile, di mantenere e monitorare le opere di idraulica forestale, ove necessario adeguando le opere esistenti e creandone di nuove, prevalentemente con soluzioni di ingegneria naturalistica. La prevenzione dei dissesti e la difesa del territorio deve, secondo la SFN, essere realizzata mediante recupero, restauro e ricostituzione delle aree forestali degradate da disturbi naturali e antropici, promuovendo e riconoscendo gli impegni silvoambientali di gestione forestale volti ad aumentare e migliorare la difesa dell’assetto idrogeologico e la tutela delle acque, favorendo il recupero delle superfici abbandonate.

Al fine di raggiungere gli obiettivi, alcuni dei quali configurati come urgenti (tra questi la pianificazione delle superfici forestali) la legge di stabilità ha individuato un fondo specifico dotato, per 10 anni, di 420 milioni di ero da attribuire alla Regioni, d’intesa con il MASAF ed il MEF. Le prime 5 annualità, due delle quali già in disponibilità nei bilanci regionali, vedono come il principale obiettivo la realizzazione della pianificazione forestale.

Grazie ai fondi del Fondo foreste, la Direzione foreste ha potuto dare impulso ad altre iniziative, volte alla qualificazione degli operatori forestali, alla redazione di una nuova Carta forestale nazionale, alla creazione di un sistema informativo forestale organizzato e ricco di dati da tutti consultabili, validati ed aggiornati, nonché ad una serie di iniziative  che assicurino l’animazione territoriale volta a creare associazioni di proprietari forestali, anche miste tra pubblico e privato, e reti di impresa per un corretto utilizzo dei prodotti forestali nell’ambito della bioeconomia circolare. L’obiettivo di rivitalizzare il settore forestale per i suoi multipli benefici è, certamente, funzionale alla prevenzione dei dissesti, ma non può esaurire il complesso delle attività che ci si attende siano finalmente incentrate sulla prevenzione.

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